FEDE E TACHIPIRINA Dio e vita

Guardando il mondo dall’alto, a notte fonda, in una qualsiasi città buia e addormentata, è possibile scoprire almeno una casa con una finestra ancora illuminata, al cui interno una mamma e/o un papà si muovono attorno ad un bimbo bisognoso di cure. Ora in penombra, due di quei genitori non sanno di essere osservati. Ma stanotte mi è possibile vedere i loro profili e movimenti, ascoltare i loro mormorii, perché uno di loro sono io e quella casa è la mia.
Capricci o voglia di biberon? Fame o male al pancino?
Purtroppo, niente di tutto questo. Febbre alta e lamenti. Ci risiamo. I virus ci hanno invaso di nuovo. Malvagi e astuti, hanno assalito il figlio minore.
Prendo lo sciroppo di tachipirina, sospiro e penso fra me: «Grazie che ci sei. Cosa farei adesso senza di te?» Alle 3:00 del mattino è lecito pensare anche in questo modo.
Le notti successive però scorrono peggiori delle precedenti, con la luce sempre accesa. La febbre continua a salire e l’umore inizia a scendere. Una nuova colonia nemica di batteri è sopraggiunta potente e, dopo un periodo di assedio, ha preso il sopravvento. Alla fine la svolta. Un dolce antibiotico al gusto di fragola risolve in poco tempo la situazione e riporta la pace in famiglia. Viva la medicina e la scienza che mi hanno sollevato da una situazione potenzialmente pericolosa.

Chissà come se la cavavano i miei nonni e bisnonni in situazioni del genere: in piena campagna, senza antibiotici né conoscenze, privi di riscaldamento e paracetamolo. Forse applicavano qualche straccio imbevuto d’acqua fresca sulla fronte. Oppure ascoltavano in penombra i lamenti del figlio, fino al silenzio per sfinimento?
Lascio a voi il triste responso, aggiungendo l’amara certezza che altrove accade ancora. Certo, esiste l’ingiustizia dell’uomo, incapace di essere solidale fino in fondo, e comunque ancora limitato nelle conoscenze e nell’agire. Ci sta il fatalismo di una natura crudele che cerca di salvaguardare la specie e se ne frega del singolo. Ma come la mettiamo con l’apparente e incomprensibile disinteresse di Dio per tante sfortunate famiglie passate e presenti?
Lo chiedo, nel buio della mia camera, al silenzio delle mie ragioni, incapace di chiudere gli occhi e abbandonarmi alla tranquillità del sonno.
La fede che porto in cuore è fatta di tanti dubbi da risolvere e di poche risposte sicure. È ricca d’incertezze e povera di evidenze. Ma sono proprio queste domande sospese che alimentano la mia testarda ricerca di verità.
Perché non si diventa cristiani assumendo facili risposte in pillole preconfezionate o sciroppi di verità addolcite. È quello spirito inquieto di S. Agostino e di altri padri della chiesa che pervade gli animi e riesce ancora a produrre fermento ravvivando la nostra religione. È osservando questo cristianesimo, fatto anche di crudi interrogativi, che qualcuno continua a dire: «finché c’è inquietudine si può stare tranquilli».

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