Sento dei passi.
Non è il calpestio leggero e allegro dei miei fratellini che accorrono per giocare con me. Sono passi pesanti che rimbombano lenti, inquietanti. Sempre più vicini.
Mi butto sull’erba, a pancia in giù.
Mi nascondo in un cespuglio.
Abbasso la testa.
Schiaccio il corpo contro la terra fredda.
Non posso fuggire, sarei visto.
È uno di loro.
Lo vedo. Mi sfiora.
Trattengo il fiato.
Un fremito mi percorre la schiena.
Sono esseri strani, quelli: enormi, allungati, traballanti.
Non hanno un corpo tondo, dai morbidi lineamenti come il mio, ma squadrato e deforme, da cui penzolano lunghi arti che si agitano come grossi rami spogli spezzati dal vento ma ancora uniti al tronco che li sostiene. Dalle loro estremità spuntano mobili artigli che, simili a rovi, afferrano e rapiscono portando la preda davanti alla loro bocca segnata di rosso al centro di una grande testa che sembra orribilmente separata dal resto del corpo. Quando sono in branco per cacciare emettono suoni rauchi, balbettati, e alcune urla secche che in certi tristi mattini echeggiano assieme a strani tuoni e latrati di cani, in lampi di morte.
Mi passano ricordi confusi e spezzati di quanto vidi tempo fa. Di quando dovetti guardare, con disperata rassegnazione, i miei compagni uccisi e portati davanti ad una delle loro tane giganti. Dilaniati prima per essere divorati poi da quelle feroci creature, che si fanno chiamare uomini.
Loro non sanno amare, almeno credo. Non sanno cos’è il rispetto per le cose e per la vita. Arrivati in questo luogo, lo hanno abbattuto, violentato, spianato. Annientato assieme ai nostri covi e alla nostra pace. Non c’è più angolo dove nasconderci, posto dove vivere.
Mio Dio, perché li hai creati? Perché ci sono? Perché proprio qui?
Quella stessa mattina, stesso posto, pochi attimi prima, sto scendendo allegro a grandi falcate il leggero pendio di una strada forestale di montagna.
E' una splendida e fresca mattina di fine estate. Il sole filtra fra i rami penetrando il bosco, lampeggiando intermittente sui miei occhi e sui miei pensieri. Lascio la presa dalle spalline del mio zaino e rilasso le braccia che, a penzoloni, rimbalzano buffe lungo i fianchi ad ogni passo. E' un posto isolato e sembra proprio che oggi non incontrerò nessuno.
Mentre respiro serenamente quell’aria satura di ossigeno, odorante di muschio e corteccia umida, scorgo stupito alla mia destra, nascosto da un cespuglio, un leprotto accovacciato e tremante.
Mi fermo. Allungo la mano lentamente, lentamente, fino a toccare il suo pelo morbido e bruno. La faccio scorrere delicatamente sul dorso fino alla coda. Non ha nemmeno il coraggio di scappare.
Sento un suo fremito. Che meraviglia.
Lo guardo. Stupidamente lo saluto e me ne vado.
Chissà quali pensieri avranno attraversato la mente di quel buffo e grazioso animaletto?! Non lo saprò mai.
Io continuo a camminare, ma non riesco a liberarmi la mente dalle parole di quel salmo che dice: “Cos’è l’uomo, oh Dio, perché te ne curi?”. E vedo tutta la mia arroganza, la mia vanità. Ne provo disgusto.
Forse sarebbe davvero opportuno che tutti ci guardassimo più attentamente da una prospettiva diversa, per scoprire chi siamo, per capire come siamo.
Mettermi nei “panni” dell’altro è il primo passo per riuscire a spostare la mia attenzione fuori da me stesso, per incontrare davvero gli altri, per guardare dall'alto le cose e, forse, cominciare ad amare. Devo togliermi la benda del mio egocentrismo, dei miei bisogni e dei miei pregiudizi, perché mi acceca e m’impedisce di camminare oltre. E guardare, e guardarmi, con occhi più curiosi, fossero anche gli occhi di un leprotto, ma soprattutto con gli occhi dei miei simili, degli ultimi e perché no, anche con quelli di Dio?
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