Non sono un bravo papà. Forse non lo sono mai stato. Urlo, giudico, perdo la pazienza. A volte esplodo come un petardo in mezzo ai figli che, imbronciati, se ne vanno via.
Ma poi loro mi cercano, si avvicinano piano piano. Hanno un grande bisogno di me. Hanno fame di me. E io mi sorprendo. E mi commuovo.
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Non sono un bravo papà. Forse non lo sono mai stato. Urlo, giudico, perdo la pazienza. A volte esplodo come un petardo in mezzo ai figli che, imbronciati, se ne vanno via.
Fatico a comprendere la loro indifferenza verso le mie raccomandazioni così evidenti. Non capisco la loro mancanza di attenzione alle mie spiegazioni così logiche, soprattutto da parte del più grande ormai adolescente.
Parlo, illudendomi di essere stato convincente, senza risultato. Poi mi agito, arrossisco in volto, alzo la voce e muovo le braccia in modo scomposto, mentre il ragazzino fa una smorfia sprezzante, mi gira le spalle e se ne va, senza parlare.
Rimango solo e mi rendo conto di aver fallito, di aver perso un’altra opportunità.
La sua è una reazione passiva, un lampo senza tuono. Rabbia che si arrende in indifferenza e rassegnazione.
Un altro figlio, invece, urla a squarciagola. Un terzo fa l’offeso. Il più piccolo piange. Modi differenti per protestare, per affermare se stessi, per manifestare la voglia di essere riconosciuti. Quattro reazioni diverse, ma con uno stesso bisogno comune: valere agli occhi dei genitori e, in quanto maschi, ricevere la stima e lo sguardo benevolo del papà; tutti aggrappati al filo di una relazione indispensabile e determinante con il padre. Ecco perché, poco dopo, li vedo tornare da me senza rancore, perdonandomi in qualche modo della sfuriata.
Mi cercano, si avvicinano piano piano. Hanno un grande bisogno di me. Hanno fame di me. E io mi sorprendo. E mi commuovo.
C’è chi parla poco con i figli. Io, invece, tendo a parlare troppo. In entrambi i casi non c’è vero dialogo: la conversazione è assente o a senso unico. Un papà deve saper parlare e saper tacere, accettando anche qualche errore.
Un genitore super bravo o saccente o troppo forte è anche un papà lontano e può diventare un modello irraggiungibile per il figlio. Dopo alcuni rovinosi tentativi, in uno sforzo impossibile, il ragazzo getta la spugna. Rassegnato e senza motivazioni cerca almeno di vivere comodo la sua resa e s’inventa la pigrizia.
Leggo la parabola del Padre Misericordioso e mi stupisco ancora una volta della genialità educativa di un Uomo-Dio vissuto 2000 anni fa. Quel padre descritto non ha atteso fermo, nel piedistallo delle sue ragioni, il figlio in errore per predicargli la sua giusta morale. Gli è corso incontro, mettendogli l’anello al dito e i sandali ai piedi, gratificandolo e donandogli dignità, in un rapporto che ha voluto alla pari.
Forse, anch’io sarò un buon papà di un figlio adolescente nel momento in cui saprò abbassarmi per trovare un canale di comunicazione in cui il rapporto sia alla pari, senza presunzione di saggezza. Qualche interesse comune nel quale possa essere mio figlio a insegnarmi qualcosa. Una zona condivisa dove i ruoli possano cambiare e spianarsi, facendo nascere complicità e stima reciproca. Piccole cose, argomenti ordinari in cui sia io a chiedere informazioni a lui, o quantomeno il suo parere.
I figli tornano dai genitori se hanno la speranza di essere accolti nei loro limiti, se possono trovare uno spazio proprio, non ancora occupato dal padre o dalla madre, dove poter crescere nelle loro capacità, affermare se stessi e sentirsi valere.
Eppure, ogni giorno ci ricasco!
Prima o poi, imparerò dai miei sbagli?
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